La Procura della Repubblica di Brescia indagava, per il reato di bancarotta fraudolenta documentale, un assistito dello Studio, amministratore unico di una S.r.l., fallita.

Veniva chiesto il rinvio a giudizio e fissata l’udienza preliminare, con il seguente capo di accusa: poiché “allo scopo di procurarsi un ingiusto profitto e di recare pregiudizio ai creditori, sottraeva o comunque distruggeva i libri e le altre scritture contabili in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del volume degli affari”.

Occorre ricordare che il reato di bancarotta fraudolenta documentale può esser compiuto soltanto dall’imprenditore fallito, che abbia volontariamente reso impossibile, al curatore, la ricostruzione della situazione economico-patrimoniale della società prima del fallimento, distruggendo o falsificando i libri contabili a tale scopo.

Tale reato prevede la pena della reclusione da tre a dieci anni e la Corte di Cassazione, recentemente, ha avuto modo di precisare che la condotta di sottrazione o distruzione delle scritture contabili, richiede il dolo specifico, cioè la piena consapevolezza e volontà di recare pregiudizio a creditori, non essendo sufficiente la generica consapevolezza, da parte dell’amministratore della fallita, di rendere impossibile la ricostruzione del movimento degli affari (così Cass. Pen. sez V n. 42664 del 2021)

Nel caso in esame, però, come sostenuto dalla Studio e riconosciuto dal Giudice dell’Udienza preliminare, le indagini erano state carenti e la pubblica accusa non aveva fornito la prova della colpevolezza dell’imputato.

Questi, infatti, aveva acquistato tutte le quote della S.r.l. nel 2014 e la stessa era fallita nel 2016.

Sino all’anno 2013 la contabilità era stata regolarmente tenuta e, successivamente, il curatore aveva “constatato l’impossibilità di ricostruire il patrimonio e il movimento degli affari della società fallita”, per ciò solo deducendo che il nostro assistito avesse sottratto o distrutto le scritture contabili obbligatorie.

Come sancito dal Giudice in sentenza (che si allega, Sent. GUP Tribunale di Brescia n. 895 del 16.06.2022), però, ciò non basta per giungere ad una pronuncia di condanna nei confronti dell’amministratore perché “non è proficuamente sostenibile l’accusa in giudizio, posto che lo stesso curatore avanza in termini meramente ipotetici che le cause del dissesto si siano verificate nei successivi esercizi, ma stante l’inesistenza di documenti probatori, non è dato di conoscerle”.

E’ stata, quindi, pronunciata sentenza di non luogo a procedere nei confronti dell’imputato già in udienza preliminare, cioè prima che si svolgesse il dibattimento, ed è stato, altresì, ribadito il fondamentale principio dell’onere della prova in capo all’accusa nel procedimento penale: in base al principio della presunzione di non colpevolezza e della regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio di cui all’art. 533 del codice penale, spetta all’accusa (cioè al PM) provare tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato e la loro riconducibilità all’imputato.

https://avvocatostefanoricci.it/wp-content/uploads/2022/08/sentenza-n.-5939-2020.pdf